In occasione del decimo anniversario della Comunità Alloggio Villa Celestina Negri di Pontetaro di Noceto abbiamo intervistato Giuseppe Colacresi, coordinatore da pochi mesi, ma con una lunga esperienza nel mondo della riabilitazione.
Come è cambiata Villa Celestina Negri nell’arco di questi dieci anni?
La struttura è cresciuta molto: siamo passati da 18 a 28 posti letto, anche grazie all’ampliamento con i mini appartamenti. La lista d’attesa è lunga, segno che i bisogni del territorio sono tanti. Ma non è solo una crescita numerica: è cambiato il modo di lavorare. Oggi tutti gli operatori sono formati, qualificati, motivati. C’è maggiore consapevolezza dell’importanza del ruolo che svolgiamo.
Ma soprattutto è cambiato l’approccio: oggi non si può più pensare all’anziano solo come a qualcuno da “gestire”. Dobbiamo ascoltarlo, accoglierlo, restituirgli dignità. In un mondo sempre più individualista, il nostro compito è anche quello di tenere viva la relazione. Perché alla fine, come dico spesso, noi siamo il loro tempo. E questa è una responsabilità enorme, ma anche un grande onore.
Cosa significa, per lei, prendersi cura degli anziani?
Prendersi cura significa riconoscere la dignità dell’altro, anche quando non può più esprimerla. Molte persone che arrivano qui hanno avuto vite ricche, ruoli importanti, e ora si trovano a dipendere da noi anche solo per bere un bicchiere d’acqua. Questo passaggio è drammatico, e noi dobbiamo accompagnarlo con rispetto, non con pietà o distanza.
Il nostro non è un lavoro “tecnico”. La parte fisica come l’igiene e l’assistenza è fondamentale, certo. Ma il nucleo centrale è la relazione. È il saper leggere i segnali, anche quelli che non vengono detti. Una lamentela, un gesto, un silenzio: cosa ci stanno comunicando? Serve empatia, serve una presenza vera, e serve un’équipe coesa, in cui ogni figura, dal medico all’OSS, abbia un ruolo riconosciuto e valorizzato. È questo che cerco ogni giorno: presenza reale, empatia, umanità. Anche quando il tempo è poco o le richieste sono tante. Non voglio mai dimenticare che dietro ogni ospite c’è una storia, un’identità, un bisogno che spesso non può più essere espresso a parole.
Quali sono le sfide nel rapporto con le famiglie e con il territorio?
Abbiamo cercato fin da subito di aprire la struttura, di rendere la relazione con le famiglie più fluida, più sincera. Abbiamo eliminato le prenotazioni per le visite (un residuo del periodo Covid) perché voglio che i familiari vedano la realtà per quella che è, senza filtri. Il nostro compito non è solo curare, ma anche accogliere chi vive l’ansia e la fatica dell’avere un genitore qui. Abbiamo attivato incontri collettivi, usiamo un gruppo WhatsApp per comunicare in modo diretto e trasparente. E stiamo lavorando per proporre momenti informativi e formativi: molte famiglie hanno bisogno di comprendere meglio cosa sta vivendo il loro caro, ma anche di affrontare le loro paure. In fondo, una buona cura passa anche attraverso il coinvolgimento della rete familiare.
Anche il rapporto con il territorio è importante. A Noceto abbiamo costruito negli anni una rete positiva: collaborazioni con le scuole, con l’amministrazione, con le associazioni. Portiamo i nostri ospiti fuori, al mercato, in gita, nei parchi. Vogliamo restituire loro un pezzo di quotidianità. Questo lavoro non può essere solo dentro le mura della struttura.
Francesca Riggillo