Abitare poeticamente il mondo, abbracciare gli equilibrismi insiti in ogni relazione, indossare habitus di ricerca che necessitano di inatteso e di profonda riflessione: queste le tematiche da cui è partito, e sulle quali si è soffermato, il percorso di formazione tenuto dal Dott. Andrea Prandin e rivolto al personale educativo dei servizi coinvolti nell’ambito del progetto Essere all’altezza.
“Partecipare al percorso formativo con il dott. Andrea Prandin ha voluto dire vivere esperienze riflessive nuove e di cambiamento, allenando l’attitudine all’esplorazione di mondi possibili. – spiega la Coordinatrice Pedagogica Carlotta Carpana – Il percorso ha consentito ai partecipanti di riflettere sulle pratiche, sulle plurime visioni di cui ciascuno è portatore, sulle storie che abitano i nostri contesti educativi, portando tutti noi a porci domande, consapevoli che le risposte non sono date, ma che stare nel dubbio consente il proseguimento del cammino.
Esperienze formative di questo livello consentono agli educatori di prendersi tempo per riconcettualizzare gli agiti e per abitare le domande della propria professione, percorrendo un tratto di strada accanto a chi sa accompagnare dando lenti caleidoscopiche con cui guardare il quotidiano”.
A entrare maggiormente nel dettaglio dei temi affrontati è proprio Andrea Prandin, Consulente pedagogico, docente-Formatore per Centro di Ricerca delle Relazioni Interculturali dell’Università di Milano.
Mi può descrivere il percorso svolto, se parte da un’analisi preliminare e quale?
“Ho scelto di portare avanti questo momento di formazione perché avevo capito che si sarebbe appoggiato su una situazione dove era presente la cura del contesto, elemento per me fondamentale. Fare una formazione perché si deve, perché dobbiamo dare qualcosa è un assetto ricorrente. In questo caso, invece, l’iniziativa nasceva dentro un match tra la conoscenza del territorio, di quello che succedeva all’interno dei servizi, e una riflessione sulla cura, ovvero proprio l’idea che porto avanti. Un match tra bisogni e indirizzi formativi del gruppo”.
Qual è il suo approccio?
“Si basa su una considerazione attorno ai temi della cura, facendo riferimento alle tematiche della complessità. Mi spiego meglio. C’è una abitudine ricorrente nelle culture che afferiscono alla prima infanzia, ovvero pensare erroneamente che lavorare con essa sia semplice e non, piuttosto, estremamente ‘complesso’. Ecco, questa è esattamente la parola chiave”.
In che senso?
“Complesso vuol dire che non lo conosciamo, che non è prevedibile, che include conflitti, dilemmi, paradossi. Sono tutte cose che nella cultura educativa della prima infanzia si vogliono evitare, sono esperienze rimosse. Perché abbiamo delle rappresentazioni della cura della prima infanzia, e più in generale dell’umano, ansiogeni e che non gradiscono la complessità nella cura del bambino”.
Può fare qualche esempio?
“Lo faccio prendendo in prestito un libro: “Il bambino non è un elettrodomestico”. Questo titolo, provocatorio senza dubbio, mette mano a una aspettativa che torna costantemente, ossia sperare che un bambino sia in un certo senso come un ‘elettrodomestico’, sfidando una aspettativa recondita che è senza dubbio anche legittima, ovvero quella di poterlo governare e proteggere”.
Effettivamente si tratta di una visione particolare.
“Vero, come è altrettanto vero che non siamo allenati ad affrontare la complessità. I disagi maggiori dei gruppi di lavoro li ho trovati nei nidi. Per tanti motivi, ma quelli che più mi interessano sono legati al fatto che non vi è una formazione adeguata alla complessità, oppure ancora vittima di alcuni bias. Manca la possibilità di celebrare la difficoltà di questa professione, perché senza problemi non si cresce. Come faccio a crescere, a proporre un percorso di cura se evito i problemi? È un approccio preoccupante”.
Mi può descrivere qualche dettaglio del percorso di formazione svolto nell’ambito di Essere all’altezza?
“In generale, cerco di uscire da una cornice moraleggiante per entrare in una più riflessiva, contraddittoria e dilemmatica. La morale della complessità è il dubbio, la ricerca, il confronto con l’altro.
Ho portato un esempio concreto: le strategie che i nidi mettono in atto nella gestione dei morsi tra bambini. Strategie di omertà, segretezza, la speranza che non avvenga. Io sostengo invece che questo debba avvenire, altrimenti neghiamo la vita e un bambino, più di un adulto, sa che la vita è anche ombre. Un bambino piccolo conosce la complessità della vita, tanto che ha sviluppato protezioni utili a gestire gli urti, non a evitarli. Siamo dentro un paradosso, dentro a due grandi movimenti legittimi e sani: proteggere i nostri cuccioli, perché fragili; ma anche rispondere al bisogno di esporli alla vita.
Tornando al morso, si tratta di un segno di esposizione: avviene in un contesto tra pari e di saggezza, perché i bambini sono saggi, e dentro le loro relazioni. Rappresenta la messa in scena della cifra della vita che chiede di riposizionarci continuamente nei suoi confronti. Una vita estetica, non anestetica, fatta di luci e ombre, ferite e possibilità, presenza e solitudine, durezza e tenerezza”.
Un’ultima domanda. Lei parla di “altravisione formativa”, cosa intende?
“Intendo una pratica, un tipo di impostazione nella formazione che è figlia della teoria della complessità, dell’obbligo a riflettere. Si traduce in un formatore che non dice come fare o qual è il metodo giusto, ma prova a far comporre allo sguardo un’altra visione . Il multi-prospettico della complessità. La stessa cosa può significare un’altra cosa. Pensare così vuol dire avere rispetto: RIS-PETTO, mi ripeto al tuo cospetto con due forme diverse”.
Chiara Marando